La mia buona stella
Scrivo perché so che tu vuoi leggere la mia storia. Anch’io quando ero malata volevo leggere altre storie.
In cerca di capire, di ricevere un conforto, una rassicurazione, una speranza, un pianto che avevo bisogno di liberare.
Ho scoperto di avere una leucemia acuta mieloide molto rara, la Leucemia Acuta Promielocitica - comunemente “leucemia fulminante” - il 24 dicembre 2007.
Avevo 22 anni. Da quel giorno ogni Natale una nota stonata risuona nelle corde dell’anima, anche se il canto del dolore è terminato ormai da qualche anno.
Tutto è accaduto in pochi giorni.
Emorragia gengivale. Ecchimosi. Controllo emocromo. Valori del sangue quasi azzerati. Ricovero d’urgenza all’Ospedale di San Giovanni Rotondo. Biopsie midollari. La diagnosi. Colloquio urgente con i medici. Pianto irrefrenabile di genitori, sorella e fidanzato. Incredulità. Spavento. Firma del modulo del consenso informato. Non c’è tempo per capire. Tanta paura. Inizio della terapia. Suono delle campane a festa, è Natale.
Indelebili i ricordi dei primi mesi frastornanti in ospedale, in quell’ospedale in cui gli occhi di Padre Pio, riflessi nei vetri dei quadri e nel bronzo delle statue, ti seguono senza tregua.
Le mie giornate tra le mura d’ospedale scorrevano lente e vuote. Il tempo era scandito solo dalla visita dei medici al mattino, dalla consegna del vassoio dei pasti a pranzo e a cena, da qualche parola scambiata con la vicina di letto, dalla preghiera che ogni pomeriggio veniva recitata dalla suora che forzatamente ti costringeva ad ascoltare.
Goccia dopo goccia, guardavo il sacchetto della chemioterapia, dell’idarubicina, svuotarsi nelle mie vene. Giorno dopo giorno assumevo le pillole di acido retinoico. Era questa la combinazione vincente, era questa la mia salvezza. La mia vita dipendeva dalla medicina, da quel protocollo di cura studiato dal gruppo di ricerca GIMEMA.
“Il primo mese è il più impegnativo ed è determinante: se rispondi bene ai farmaci, siamo sulla strada giusta” mi rassicuravano i medici. “Tieni duro, ce la farai!” mi dicevo “Hai solo 22 anni, il mondo fuori dalla porta di questo ospedale ti aspetta, hai la tesi di laurea quasi pronta, giornate da godere, fuori è tutto troppo bello e non puoi stare ingabbiata qui dentro! Pugni chiusi e combatti!”.
Dolori intercostali, alcuni trasfusioni di sangue, stanchezza, debolezza, qualche infezione, cefalea, nausea, cambiamento del corpo, perdita della folta chioma riccia, indebolimento della peluria, controllo ossessivo dei valori del sangue e del midollo, uso delle mascherine e periodici ricoveri in ospedale hanno accompagnato i primi e più difficili cinque mesi di terapia d’induzione.
Ma non c’è stato solo questo.
C’è stato l’amore smisurato di mamma, papà e sorellina, la dolcezza e la dedizione del mio fidanzato oggi diventato marito, l’affetto delle persone care e, soprattutto, il mio prepotente bisogno di guardare avanti, oltre la malattia, oltre il dolore, oltre gli occhi gonfi di pianto dei miei cari. Ho fatto il possibile per distrarre la mente, per evitare di aggrovigliare i pensieri alla ricerca di risposte al “Perché proprio a me?”. Non c’è una spiegazione, una risposta a tutto questo, tanto vale lottare e fare il possibile per vincere.
Ho continuato a studiare completando la tesi e a luglio, a sei mesi dall’inizio della mia terapia, la gioia per il traguardo tanto ambito, la mia laurea conseguita con il massimo dei voti e la lode.
Nel frattempo il mio corpo rispondeva bene alle cure, ero “in remissione”.
Carica e determinata, ho dato inizio al mio secondo periodo di cura, quello della terapia di mantenimento: per due anni ho assunto pillole a basso dosaggio chemioterapico, periodicamente intervallate al mio farmaco salvavita, l’acido retinoico.
Costanti i controlli del sangue e del midollo in Day-H.
Risultati sempre buoni.
Fine della terapia.
Si fa festa! Inizia una nuova vita!
Oggi ho 32 anni e qualche mese fa ho fatto la mia ultima biopsia midollare concludendo, così, anche il ciclo di controlli periodici post terapia. Nelle mie vene scorre solo trepidante felicità.
La malattia mi ha tolto e mi ha dato. E lo farà anche con te che stai leggendo e cercando conforto nella mia storia.
Mi ha tolto del tempo, breve sì, si è trattato di un frangente della mia vita, ma è un tempo senza tempo, indefinito, che lascia il segno per il resto dei propri giorni, te ne ricordi nelle giornate tristi e uggiose e in quelle belle e felici. Ho “perso” tempo ma ne ho ritrovato tanto e tanto altro. Tanto tempo per amare, per gioire, per lavorare, per conoscere, per viaggiare, per continuare a sognare.
La malattia appartiene al passato ma nel presente resta l’impegno a dire a te che uscire dal labirinto della malattia si può, occorre affidarsi alla scienza e alla propria Forza di volontà!
Vedrai che anche tu, ormai guarito, ogni Natale (e non solo) cercherai la “tua buona stella”!
Buona strada, amica e amico mio!
Selene
Storie di combattenti