Leucemia acuta mieloide con mutazione FLT3-ITD: un nuovo approccio post trapianto
la Leucemia acuta mieloide con mutazione FLT3-ITD rappresenta il 25% delle LAM diagnosticate, caratterizzata da un alto rischio di recidiva. Uno studio cinese pubblicato su The Lancet Oncology ha analizzato l'efficacia di un inibitore della proteina FLT3 post trapianto per prolungare lo stato di remissione, evitare il più possibile le recidive e aumentare quindi la sopravvivenza.
Fra i vari tipi di leucemia acuta mieloide (LAM), quelle con la mutazione FMS-like tyrosine kinase-3 - internal tandem duplication (abbreviato comunemente in FLT3-ITD), sono tra le più frequenti (fino al 25% delle LAM) e risultano ad elevato rischio di recidiva, nonostante una terapia aggressiva. In questi casi, spesso l’unica terapia curativa è il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, ma molti pazienti purtroppo recidivano dopo il trapianto. Dal 2017, l’utilizzo di inibitori specifici della proteina FLT3 ha rivoluzionato la terapia di questo tipo di leucemia, e farmaci sempre più selettivi e meglio tollerabili stanno entrando nella pratica clinica quotidiana. Il loro utilizzo è previsto soprattutto in combinazione con la chemioterapia intensiva di induzione e consolidamento, ma diversi studi si sono concentrati sul loro utilizzo in mantenimento dopo il trapianto di midollo, per prolungare lo stato di remissione, evitare il più possibile le recidive e aumentare quindi la sopravvivenza. In questo secondo caso, uno degli inibitori più utilizzato è il sorafenib, un inibitore relativamente poco selettivo che agisce sia su FLT3 sia su altre proteine.
Uno studio cinese
In tale prospettiva vale la pena andare a rileggere i risultati di uno studio multicentrico randomizzato di fase 3, cinese, pubblicato su The Lancet Oncology, che ha analizzato l’efficacia a lungo termine dell’utilizzo del sorafenib post-trapianto di midollo in questo tipo di LAM. Lo scopo della ricerca era di analizzare, dopo un follow up di 5 anni: 1) la sopravvivenza di questi pazienti rispetto a quelli che non avevano ricevuto il sorafenib post-trapianto; 2) l’incidenza di recidiva; 3) la mortalità non legata alla recidiva; 4) la sopravvivenza libera da malattia e 5) l’incidenza di complicanze da trapianto quali la malattia da rigetto contro l’ospite (GVHD).
Lo studio ha arruolato 202 pazienti giovani (18-60 anni di età), 102 nel braccio di non mantenimento e 100 nel braccio sorafenib (400 mg ogni 12 ore, secondo tolleranza), che hanno iniziato il farmaco fra 30 e 60 giorni post-trapianto e per un massimo di 180 giorni.
L’analisi ha evidenziato che l’utilizzo di sorafenib post-trapianto ha portato a una migliore sopravvivenza globale (72 vs 56%), un minor rischio di recidiva (15 vs 36%) e una migliore sopravvivenza libera da malattia (70 vs 49%), senza un aumento del rischio di mortalità da altre cause, né di GVHD. Il trattamento è stato discretamente tollerato, ma il 59% dei pazienti ha dovuto modificare o ridurre la dose del farmaco per aumentarne la tollerabilità, mentre un’esigua percentuale (5 pazienti) ha dovuto interromperlo del tutto. Inoltre, il mantenimento con sorafenib ha dimostrato di essere particolarmente efficace in pazienti la cui leucemia oltre a FLT3 era caratterizzata anche dalla presenza di altre mutazioni (NPM1, DNMT3A).
I ricercatori concludono dicendo che, in questo tipo di pazienti, l’utilizzo di sorafenib in mantenimento post-trapianto è altamente consigliato e che il farmaco può ulteriormente migliorare la sopravvivenza, dato che la principale causa di outcome avverso in questo setting rimane la recidiva di malattia.
Referenze bibliografiche
Lancet Oncol.2020 Sep;21(9):1201-1212
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32791048/
Scopri le altre news