Ho accettato la sfida con il mio tumore e l’ho vinta grazie alle Car-T

    Ho accettato la sfida con il mio tumore e l’ho vinta grazie alle Car-T

    A Genova non ci sono tangenziali, ma solo una lunga striscia di asfalto che attraversa la città da una parte all’altra. Si poggia su dei piloni di ferro blu scuro, ed è per questo che nessuno, da queste parti, la conosce con il suo nome, che sarebbe strada Aldo Moro, ma come sopraelevata. Per otto anni la sopraelevata è stata lo scandire del mio tempo, e quindi della mia vita. Vedere Genova che scorreva sinuosa davanti a me era la pace dei sensi, un’indipendenza conquistata. La città compariva leggera ogni mattina, dandomi il buongiorno, e mi salutava la sera, con la promessa di riapparire il giorno dopo con lo stesso, consueto splendore.

    Durante il ricovero pensavo alla sopraelevata come un rifugio, capace di rasserenarmi anche per pochi minuti, ma a volte bastava. Era la mia idea di libertà negata. All’interno della mia camera, che chiamavo trappola per topi, sognavo il ritorno a una normalità che, prima della malattia, non era certo monotona. Ma rinchiusa in una stanza asettica, senza ricircolo d’aria se non quella viziata proveniente dagli aspiratori del soffitto, avrei tanto voluto quella prevedibilità che prima disdegnavo. ll tumore è come quel gioco in cui escono castori da mille tane e tu devi ricacciarli con un martello il prima possibile. É il suo imponderabile manifestarsi, a fregarti. E a farti desiderare nient’altro che essere su di una linea retta, noiosa, ma perlomeno di cui si vede inizio, svolgimento e fine. Ma il tumore non bussa alla porta, non chiede permesso, lui no. Lui esplode come una bomba, ti scoppia in mano e ti sfida, urlando: ora arrangiati! E così ho fatto: mi sono arrangiata. 

    Ho accettato la crioconservazione degli ovuli per preservare la mia futura maternità, io che avevo sempre pensato che non sarei mai stata mamma. Ho affrontato la chemioterapia, sfidando i suoi effetti collaterali, sforzandomi di mangiare anche se non avevo il benché minimo appetito, e quando la vedevo arrivare avvolta nei fogli di stagnola dicevo a mia mamma: presto, dammi i biscotti! sperando che così facendo la nausea non sarebbe mai arrivata. Ho immaginato, dopo essermi sottoposta alla rachicentesi, di essere sdraiata in qualche spiaggia delle Maldive, a godermi un tepore tropicale. Ho vissuto nell’attesa, logorante e infinita, di ricevere i risultati della Pet, consapevole che, in quel momento, non sarebbe solo stato ciò che sentivo dentro a decretare lo stato della malattia, ma anche quello che sarebbe stato scritto su un foglio di carta. Ho imparato a percorrere nuove strade, quando queste erano solo spiragli nascosti in un muro che sembrava impenetrabile. 

    Guidata dalla mia ostinazione sono andata a Torino, dove per la prima volta mi è stato diagnosticato il linfoma primitivo del mediastino, lo spazio della gabbia toracica contenente gli organi superiori. Il momento più difficile è stato quando mi hanno prospettato un secondo ciclo di chemioterapia, ancora più invasivo di quello precedente. Ero a un bivio. Da una parte potevo tornare a vivere in una, seppur breve, normalità, senza farmaci, catetere (che in realtà avevo già imparato ad apprezzare e “vestire” con fascette alla moda) e con i miei capelli in testa. Per un periodo breve ma incerto, perché non esiste un medico che sia in grado di quantificare con certezza il tempo che ti rimane. Dall’altro lato potevo affidarmi ciecamente alla scienza e alla ricerca.

    Di solito si pensa che quando si compie una scelta del genere lo si faccia per qualcosa o qualcuno: un progetto, un fidanzato, un sogno ma io no, l’ho fatto per me stessa, per l’amore incondizionato che nutro verso il dono più grande di tutti, la vita. Così ho riperso i capelli che nel frattempo, seppur corti, erano tornati a crescere, in cambio di una cura che non sapevo quanto mi avrebbe stremato. L’ho fatto lontano dalla mia città e dagli affetti, ma sono riuscita a trovarne di altri. Ho voluto sempre scovare il più piccolo barlume di normalità, sforzandomi di andare a cena fuori ed evitando al tumore di impadronirsi dei miei tempi di vita. 

    Dopo, è arrivato il momento dell’aferesi che, sebbene possa sembrare assurdo, mi ha affascinato con quelle specie di nastri neri su cui girava il mio sangue e che mi ricordavano le bobine di un vecchio studio di registrazione. Ma non ho avuto modo di distrarmi, perché la seconda Pet ha riportato un quadro della situazione ancora peggiore rispetto alla precedente. Per fortuna chi era davanti a me non si è limitato a darmi la brutta notizia ma mi ha anche prospettato una possibile ancora di salvezza, che nel mio caso aveva il nome di terapia Car-T, per la quale nel frattempo avevo pure avviato una campagna di crowd funding. Per prepararmi mi sono sottoposta a delle sedute di radio terapia, meno invasive della chemio ma che hanno comunque messo a dura prova il mio fisico. Il primo, sottile spiraglio di luce si è presentato salendo le scale del reparto di radiologia: avevo appena ritirato i risultati della Pet e, rispetto alle tornate precedenti, i risultati erano molto più incoraggianti. 

    Potevo procedere con le Car – T! Ricordo i giorni immediatamente precedenti al ricovero come un periodo di cene e aperitivi, mi aspettava un periodo indeterminato da trascorrere in una camera sterile, con ben poche possibilità di contatti con il mondo esterno. Sono entrata in ospedale il fine settimana prima di Natale, con l’umore non certo dei migliori. Il cerchio si stava per chiudere, ero di nuovo nella mia trappola per topi, questa volta però con qualche comodità in più e arredata con un quadretto contenente una frase, è un regalo di un’amica a cui tengo molto. Mi ero pure portata qualche libro, un vecchio game boy e la determinazione di Rocky Balboa nel salire sul ring

    C’è stato ancora il tempo e la necessità di un’ultima chemioterapia e, per fortuna, di un Natale festeggiato in un ristorante a Milano con la mia famiglia, dopo essere riuscita a convincere i medici. Il 27 dicembre, con la stessa attesa del giorno prima di partire per una gita con la scuola, è arrivato il momento del Car T. La mia salvezza aveva la consistenza di una boccetta da 20 ml. I medici temevano che il picco dell’effetto collaterale si verificasse proprio a Capodanno, ma io ho resistito fino alla Befana, quando ho avuto la febbre altissima e sono svenuta, riprendendo i sensi solo dopo due giorni. Niente di inaspettato, e superata la fase più dura mi sono costruita la mia quotidianità a ritmo di lettura, ginnastica e Trivial Pursuit, a cui costringevo giocare mia sorella o il povero malcapitato infermiere. 

    Sono stata dimessa sul finire di gennaio e sono tornata a casa in attesa della data, fatidica, del 20 febbraio, quando sarei stata informata sull’esito dell’ultima, definitiva Pet. In caso di brutte notizie non avevo altre strade da percorrere, avevo fatto tutto ciò che la scienza, in questo momento, consente. Capite perché la ricerca è fondamentale? Il 20 febbraio fu un giorno particolare. Inizialmente, a causa di un malinteso, pensai che la mia situazione fosse peggiorata. Fu sull’autostrada A26, mentre ero ferma ad un autogrill non lontano da Novi Ligure, che ricevetti una chiamata dal mio ematologo. “Eleonora, la Pet è completamente negativa, non c’è più alcuna traccia di tumore nel tuo corpo”. 

    La prima reazione fu di gridare, forte. E così fecero mia sorella e mia madre. Credo che ancora adesso in quell’autogrill si ricordino di noi come tre pazze. Poi, dopo le grida, la gioia e le lacrime, avvertii una strana sensazione, come se dagli occhi fosse andata via una patina opaca, che per molto tempo mi aveva impedito di vedere quale fosse la via da percorrere. A Genova era un giorno di sole e io ho pubblicato una storia su Instagram. Nella foto si vede la città, la mia città, attraversata da quella sopraelevata a me tanto cara. E come sottofondo la voce di Jovanotti che canta: e ritorno da te, senza niente da dire, senza tante parole, ma con in mano un raggio di sole. 

    Eleonora

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